Depressione e Spiritualità

(‘Elementi di Psicologia Spirituale’ – p. 39 - 52)

Dal vuoto esistenziale

alla vacuità liberatrice

            In questo capitolo cercheremo allo stesso tempo di ravvicinare e di differenziare il vuoto esistenziale, doloroso, del depresso e la vacuità liberatrice, luminosa, del mistico. Nei due casi, si tratta più di esperienze vissute che di concetti filosofici. Esiste un punto di passaggio, una passerella, tra questi due stati che permettono di dare a certe depressioni la dimensione di un’iniziazione, di un’ entrata sulla via spirituale ?

            Schematicamente si può dire che il campo della psicologia riguarda la descrizione dei diversi tipi di depressione e il loro trattamento in fase acuta. Invece, una spiritualità ben capita mi sembra più efficace quando si tratta di prevenire gli squilibri di vita portando alla depressione o quando si tratta di accompagnare un depressivo a lungo termine. Non mi è stato sempre possibile dire se le mie riflessioni erano valide sopratutto per il paziente o per il terapeuta, o per il lettore normale. Riguardano chi è aperto e desideroso di sentirle, che siano quelli che cercano di capire la depressione per loro stessi o il loro ‘entourage’, o allora i loro pazienti. Mi auguro, in modo particolare, che ispirino coloro che hanno il compito arduo e quanto difficile di accompagnare i morenti.

Le descrizioni psichologiche della

depressione e i loro limiti

            Ci sono due grandi tipi di depressioni : le depressioni psicogene, di origine puramente psichica e le depressioni endogene la cui base costituzionale è, il più delle volte, ereditaria : è la malattia maniaco-depressiva con alternanza di eccitamento e di depressione. Sembra dovuta ad una deficienza enzimatica intralciando gli scambi di sodio attraverso la parete della cellula nervosa. In teoria non c’è altro da fare per il paziente colpito da questo disturbo che di curarsi con la presa di litio ed accettare il suo destino. Eppure in pratica, visto che le crisi hanno spesso dei fattori ‘scatenanti’ di origine psicologica, un trattamento passando per la via spirituale non è del tutto escluso. Conosco personalmente un caso di psicosi maniaco- depressiva che è stata nettamente migliorata con la meditazione, nella quale il meditante cerca di andare sistematicamente al di là delle coppie di opposti (piacere-dolore, stanchezza-eccitamento, ecc.) il che migliora le variazioni dell’umore.

            Tra le depressioni psicogene si possono distinguere due grandi tipi : la depressione anaclitica del soggetto giovane, caso tipico della ragazza che ha rotto con l’amichetto e tenta il suicidio con il buon gusto di mancarlo ; e la depressione esistenziale del soggetto di una certa età che, di solito, quando decide di suicidarsi, non fallisce. Si parla anche di depressioni per esaurimento, sfinimento, dovute ad un accumulare di stress non risolti. Fondamentalmente, mi sembra che tutte le depressioni siano dovute ad uno sfinimento : anche se lo stress non è apparente, è presente sotto forma di conflitti intra-psichici che rappresentano una perdita continua di energia.

            Un buon criterio di salute psichica è l’adattabilità al cambiamento. Si può concepire, alla maniera di Erik Erikson, la crescità dell’individuo come un succedersi di crisi. Se si riesce a superarle, si sviluppa una ‘qualità corrispondente’ propria ad ogni stadio : fiducia fondamentale per il lattante che accetta facilmente lo svezzamento, autonomia per il ragazzino, voglia d’imparare per il ragazzo, identità per l’adolescente, intimità per l’adulto giovane e integrità per l’adulto maturo. E’ interessante notare che Erikson non parla dell’anziano. Le questioni esistenziali che quest’ultimo si pone di fronte alla morte oltrepassano senz’altro le sue concezioni psicologiche. Con la pratica spirituale si ricollocano le ‘piccole’ crisi qui sopra elencate in un quadro di due grandi crisi, la vita e la morte. Ciò dà ampiezza e profondità allo psichismo e permette di relativizzare queste crisi che ho definite ‘piccole’ anche se sembrano enormi a colui che le vive.

            Le psicoterapie che si potrebbero chiamare ‘pragmatiche’, rispondono, in apparenza, alla domanda media dei pazienti, però hanno un modello dell’essere umano povero : lo considerano come una sorta di macchina che deve funzionare senza intoppi, dalla nascita alla morte, come un computer dell’Istituto di Statistiche Sociopsicologiche…Simpatico ! Però è una visione piatta e che…appiattisce le possibilità umane : l’uomo è una ‘canna funzionante’. E’ facile dire che il paziente non ha per più di ciò che gli si propone. Ma se avesse una domanda ‘inabituale’, avrebbe, il terapeuta, una risposta ? Una risposta che non sia intellettuale ma vissuta ?

            Si può ritenere che aiutare un individuo psicologicamente significhi aiutarlo ad accettare, a ‘metabolizzare’ le frustrazioni e i lutti piccoli o grandi di cui l’esistenza è cosparsa. Di fronte ad una frustrazione o un lutto nel senso largo, ci sono tre evoluzioni possibili : l’evoluzione scendente, e cioè l’affondare nella depressione e i rimpianti ; l’evoluzione circolare in cui si cerca un nuovo oggetto che sostituisca il precedente, in qualche modo un nuovo paio di  stampelle per rimpiazzare quelle perdute (ed è questo che fa spontaneamente la maggior parte della gente e che poi la maggior parte degli psichologi li consiglia. Certo questa reazione è preferibile a quella che finisce nella depressione pura e semplice). La terza evoluzione è quella ascendente : si accetta il lutto come tale e si guarda il vuoto creato come una finestra che si apre sull’assoluto. Non si cercano più i ‘tappabucchi’ e si riesce a trasformare la voragine nera della depressione in vacuità luminosa di liberazione. Con ‘liberazione’ intendo liberazione da una dipendenza grande o piccola che sia. D’altronde, il miglior pungolo per trovare la felicità dentro di sé è il sentimento di frustrazione. E’ una spina incitativa che fa evolvere di continuo.

            Se lo psicologo ha una visione puramente pragmatica delle cose, cioè se si accontenta di sostituire un’evoluzione discendente con un’evoluzione circolare, scarta, respinge il bisogno spirituale. Ma quest’ultimo riappare in un altro momento; è il ‘ritorno dello scartato’ sotto forma a volte selvaggia o mediocre: affiliazione ad una strana setta religiosa, interessamento fanatico a qualche gruppo occultista a buon mercato. Quest’ultimo fenomeno va di moda attualmente nell’ex-Unione Sovietica ed è forse una buona illustrazione del ritorno disordinato, dopo mezzo secolo di psicologia compressiva, dello spirituale messo allo scarto. Il maestro spirituale non può, più del terapeuta, risolvere i problemi esistenziali al posto del paziente o del discepolo. Può indicargli, tuttavia, i metodi di lavoro interiore. Rappresenta inoltre, per un discepolo indebolito, una luce in fondo al tunnel.

            Piuttosto che parlare di ‘lavoro di lutto’ preferiscco parlare di ‘allentamento della presa’, di ‘distacco’, di ‘liberazione’. Dal momento che un attacamento è portato via dal fiume della vita è bene considerarlo retrospettivamente come un pesante fardello caduto da sé. E’ un sollievo. Piuttosto che parlare di ‘pulsione di morte’ preferisco parlare di ‘deviazione della pulsione di vita’. Stabilire una dualità : ‘pulsione di morte – pulsione di vita’ è, in realtà, una vecchia tentazione : era riapparsa nei primi secoli della nostra era con Manès e certe forme di gnosi. E poi nel nostro secolo con Freud. Tuttavia, le tradizioni spirituali evitano di cadere in questo dualismo facile. Anche se sembra corrispondere a certe apparenze, rappresenta in realtà un ostacolo all’evoluzione interiore. Non è detto che dobbiamo lasciarci intrappolare da certe categorie uscite dalla mente di un Freud invecchiato e forse depresso, sopratutto dopo la sua operazione del cancro alla fine degli anni venti. Il vocabolario ‘psi’ usuale è riempito di suggerimenti negativi [1] . Anche se il terapeuta ha il buon senso di non parlare troppo di psicopatologia al paziente, non può fare a meno di capirlo in termini di patologia, visto che è la sua formazione. E il fatto rappresenta in sé una presa di posizione che influenza la persona che ha di fronte. Invece un bravo terapeuta o un saggio possono essere in grado di tirar fuori da un quadro psichico disastroso, elementi positivi che sapranno mettere in valore, a dispetto di tutto e di tutti, per incoraggiare il paziente. In questo campo impreciso e malleabile che è lo psichismo, un bicchiere mezzo vuoto è realmente il contrario di un bicchiero mezzo pieno. I terapeuti dovrebbero sorvegliare il loro linguaggio anche in ciò che dicono a sé stessi a proposito dei pazienti. Altrimenti, anche se sono pieni di buona volontà, rischiano di essere nocivi e di confermare dei pazienti che sono ‘limiti’ in una patologia fissata.

            I sufi raccontano una storia che mostra l’interesse di sapere qualche volta sotterrare certi problemi, contrariamente al metodo psicoterapico abituale :

 « Un uomo vecchio e ricco aveva sposato una donna bella e giovane. Dopo qualche anno di una vita di coppia senza problemi, uno dei servitori del vecchio uomo lo venne a trovare e gli disse :

            ‘Non so perché ma diverse volte tua moglie ha rifiutato di darmi la chiave del grande baule che c’è nella camera da letto, mentre stavo lì per mettere ordine. Non sto insinuando niente, volevo giusto informarti… !’

Il vecchio va a trovare sua moglie. Invece di rispondere alle sue domande, quest’ultima scoppia in singhiozzi e dice : ‘ Credi nelle insinuazioni del servitore ? Come puoi pensare che nascondo un amante nel grande baule della camera ? Non hai fiducia in me ! Vai a vedere da te !’ E mette nelle sue mani le chiavi del baule. Dopo una lunga riflessione, il vecchio uomo va a seppellire il baule in fondo al giardino con l’aiuto dei suoi servitori. Da quel giorno è sempre stato in buoni rapporti con sua moglie e non hanno mai più parlato di questa storia. » (Secondo ‘Les Contes Derviches’ - I Racconti Dervisci – d’Idries Shah. Edizioni Le Courrier du Livre).

Se la psicologia occidentale a dei limiti di fronte alla depressione, può la filosofia, per esempio l’esistenzialismo, aiutare a trascendere quei limiti ? In poche parole, penso di non : l’ambiente generale dell’esistenzialismo è troppo depressivo in sé per poter aiutare una persona depressa. Tutt’al più quest’ultima potrà sentirsi un po’ sollevata dalla lettura sentendosi meno sola nel suo stato di abbandono morale totale. Il vantaggio è che sentirà più conforto nella sua depressione, ma l’inconveniente è che ci si sentirà confortata : non avrà più molta voglia di venirne fuori. Non bisogna dimenticare che Sartre ha pubblicato L’Etre et le Néant – L’Essere e il Nulla – nel 1943 in un’epoca in cui una mente materialista aveva buone ragioni per essere pessimista. Infatti la certezza rassicurante in un progresso continuo dell’umanità era stata seriamente intaccata dagli avvenimenti. Il semplice fatto di smontare il funzionamento dell’ego porta ad un nihilismo di fatto, se questo lavoro non è accompagnato da un acuto senso dell’Assoluto sottostante, latente. Il filosofo esistenzialista e il Budda si trovano forse davanti allo stesso vuoto, ma il primo ne ha la nausea mentre il secondo ne sorride : forse sta  lì la differenza ?

La depressione, risveglio spirituale mascherato ?

            « Beato colui che conosce la prova, è entrato nella vita » dice Gesù nel Vangelo di Tommaso (logion 58). Qual’è il significato dei sintomi della depressione ? Non sarà un tentativo maldestro di ‘ri-equilibrazione’ ? Forse possono, presi in una prospettiva corretta, portare il paziente a migliorare o addirittura ad entrare in un processo spirituale che forse non immaginava neanche ? In questo senso ogni sintomo ha forse il proprio genio ? Prendiamo per esempio l’insonnia del mattino, cosa classica nel depressivo, particolarmente nel malinconico. Si è, per molto tempo, tentato di soffocare questo sintomo con i sonniferi. Poi qualcheduno ha avuto l’idea di lasciar fare al depressive ciò che voleva, cioè coricarsi molto presto e alzarsi molto presto. E questo ha migliorato notevolmente il disturbo.

            Consideriamo adesso l’inibizione psicomotrice: si giudica in genere questo criterio come il più sicuro della depressione. E’ invece il fatto di non muoversi più minimamente non potrebbe corrispondere ad un bisogno di ritiro, di rientro in sé, di riposo ? Non potrebbe essere un riflesso di difesa sano dell’ organismo di fronte allo stress continuo della corsa al consumo in tutti i campi. Corsa così cieca quanto spossante ? Nella società occidentale attivista, questo bisogno di non far niente non è riconosciuto. Se non si hanno i mezzi, o se non si ha neanche più il gusto di andare a pesca o alla spiaggia, si cade in depressione. L’inconveniente è che anche se ci si guadagna un certo riconoscimento sociale, si è colpevolizzato lo stesso. Ci si vuole auto-punire per la pigrizia  e la propria inutilità. Questo bisogno di punizione è realmente patologico e anti-spirituale. Non è auto-flagellandosi che si dominerà il proprio ego. Si rischia piuttosto di rinforzarlo.

            Così come il fiore ha il suo ritmo, si apre e si chiude, così come il corpo ha il suo ritmo, si addormenta e si sveglia, anche la psiche ha il suo ritmo ; alterna, naturalmente, le fasi d’interiorizzazione e di esteriorizzazione. Nelle depressioni dovute a conflitti intra-psichici si può considerare che il soggetto è male e insufficientemente interiorizzato. Non riesce a raggiungere le zone profonde del suo essere scendendo al di sotto delle tempeste di superficie. Dubbita pure che tali zone possano essistere : è questo la sua malattia e, a volte, anche quella del suo terapeuta…La società, e spesso la famiglia, chiedono all’individuo di funzionare continuamente nel reale esteriore. Eppure, come diceva Bachelard : ‘Un essere privato della funzione dell’irreale (in altri termini il reale interiore) è nevrotico quanto un essere privato della funzione del reale ».

            La concentrazione del malinconico in sé stesso raggiunge, in un certo senso, quella del saggio, pur essendole totalmente opposta : gli estremi si toccano. Può darsi che il malinconico colpito da una grande ansietà all’inizio della sua crisi, abbia scoperto che rimanendo completamente immobile, può ottenere una certa pace mentale zittendo per un momento questa sua enorme auto-agressività. E’ malgrado e non a causa della sua immobilità che il malinconico è ansioso ; compie questo lavoro di pacificazione interiore troppo tardi e in modo troppo superficiale.

            Parliamo adesso dell’idea di vuoto che è il filo direttore di questo capitolo. Il depresso grave sente che il suo corpo è vuoto, che il mondo esterno è privo di senso, che agisce automaticamente. Per lui il vuoto sembra essere un nulla. Per il meditante la vacuità non è un nulla. E’ un contenente di potenzialità, e in quanto, è molto vicina alla plenitudine o all’assoluto. La vacuità è l’assenza di forma : da un punto di vista corporale, ciò corrisponde ad un rilassamento immobile. Il depresso con la sua ansietà, ha un corpo agitato e pieno di blocchi. Concentrandosi sull’idea del vuoto immobile, attenua i suoi blocchi. Però lo fa automaticamente senza accorgersi del meccanismo, e il vuoto che ottiene rimane carico di colpevolezza e di ansietà. Inoltre, preso da questo lavoro interiore che si sta svolgendo, arriva al punto di lasciar perdere il mondo esterno e ciò aumenta ancora di più la sua colpevolezza. Il meditante, lui, sa entrare e uscire dal vuoto a piacere suo. Il saggio può continuare a vedere il vuoto pur continuando ad agire. Un’idea fondamentale del buddismo mahâyâna è di ‘vedere il vuoto nella forma e la forma nel vuoto’. Installandosi in uno stato senza limiti (ananta), prova la felicità senza oggetto (ananda). La similarità delle due parole sanscrite corrisponde alla similarità della realtà.

            A volte l’incubo di caduta nel vuoto può trasformarsi instantaneamente in un sogno piacevole di discesa in volo librato. Si tende allora a cadere indefinitamente senza mai farsi male. Si può proporre al paziente questo piccolo trucco d’immaginazione attiva. Per lui il solo fatto di rendersi conto che può cambiare nel buon senso alcune delle sue immagini mentali costituisce un grande incoraggiamento. ‘Cadere in fondo al buco’ dà un senso della profondità, il che è un bene, a condizione di venir fuori della prova. Quando si è in fondo al pozzo tutto quello che si vede è il cielo ; il baratro riflette una macchia azzurra, la disavventura occulta una scintilla divina. Non dice il Salmista : « Dalle profondità ho gridato verso di te, Signore… » ?

            Il depresso, come il meditante, vede il vuoto delle forme. Tuttavia il primo ci si ferma, mentre il secondo va verso l’assoluto che chiama il vuoto del vuoto e che considera nel suo aspetto di luce e di felicità. Il vuoto del meditante viene da uno sforzo di comprensione del funzionamento della mente ; non è sopraggiunto automaticamente come nel depresso. Shantideva, un maestro buddista, diceva : « Se non si ha, inanzitutto, l’apprensione del fenomeno costruito dalla mente, la sua non-esistenza non può essere stabilita. »  Lo sbaglio del depresso non è di ricercare il riposo del vuoto, ma di ricercarlo ad esclusione di tutto il resto. E’ di credere che l’ha trovato mentre la sua mente sta ancora rimuginando idee morbose. Perde di vista la verità convenzionale del mondo, di lì la sua sofferenza. Nâgârjuna diceva : « Il dharma insegnato da tutti i Budda è proprio fondato su due verità : la verità convenzionale del mondo e la suprema ed ultima verità. »

            Per quanto possibile, il depresso dovrebbe cercare di ammansire il suo sentimento di vuoto, e di non avere il senso di colpa : dopo tutto, ci può essere una gioiosa affermazione d’indipendenza nel rigettare tutto per ‘fare il vuoto’, come il bambino che rigetta lontano i suoi giocattoli, divertandosi molto nella cosa. Il terapeuta, e a volte anche il paziente, potrebbero trarre beneficio da una meditazione sul simbolo dello zero : lo zero rappresenta l’uovo cosmico da cui è uscito il mondo. In alchimia è incluso nei simboli di praticamente tutti gli elementi, ne costituisce il comune denominatore. Dal punto di vista mistico, il vuoto è spazio di coscienza. Jacob Boehme, l’uomo che chiamavano ‘il Padre della Chiesa dello Spirito’ esprimeva questo in una formula rilevante : « Il Niente eterno è l’occhio della Visione eterna. »

            L’idea della morte, distruttiva per il depressivo, è liberatrice per il filosofo o il mistico. « Filosofare è imparare a morire » diceva Socrate. Nello Zen si raccomanda di ‘vedere la vita dal fondo della propria bara’. Quando si facevano domande sulla morte a Nisargadatta Maharaj, qualche mese prima del suo decesso, rispondeva : « Non vi parlerei così se non fossi già morto. »  Questa morte dell’ego fa paura. In un’ altra occasione, Maharaj aveva evocato l’idea di liberazione in questa vita stessa. Un visitatore aveva esclamato : « Ma, è come la morte ! »  « E’ la morte ! » rispose Maharaj. Quando si è realmente liberati  dall’angoscia della morte, e solo i grandi saggi e i grandi santi lo sono, si è liberati da tutte le altre angoscie. Quando non si ha più niente da perdere, non si può essere che vincente.

            La meditazione rappresenta una prevenzione, una profilassi della depressione : tornando quotidianamente alla fonte della felicità che sta dentro di noi, si evita quest’accumularsi di sentimento di frustrazione interna che fa che la gente che ha tutto, materialmente, per essere felice, può diventare inasprita e alle volte decisemante depressa. Il bambino ha delle variazioni di emozioni forti e rapide. Noi restiamo bambini all’interno, anche se abbiamo ricoperto questa ‘ciclotimia infantile’ con una parvenza di umore assai monotono : questo ci permette di funzionare più o meno normalmente in società. Abbiamo già visto che la meditazione rende capace di riconoscere queste variazioni rapide (voglia-disgusto, piacere-dolore, ecc…) e di andare al di là. In India si insiste sul fatto che il saggio sta ‘al di là delle coppie di opposti’ (dvandvatîtam). Nella Bibbia a volte Dio è presentato chiaramente come al di là dei contrari : « Non c’è nessuno tranne me…Creo la luce e le tenebre, faccio la felicità e creo l’infelicità, sono Io, Yahve, che creo tutto ciò » (Isaia 45, 6-7) (La traduzione letterale dall’ebreo è : « Faccio la pace e il male. »

            Con il ‘lasciar presa’ che implica, la meditazione è liberatrice. Ci permette di evitare di far la fine della scimmia della storia orientale : « Un giorno scuotendo una noce di cocco apparentemente vuota, una scimmia sente un rumore. Riesce a passare giusto giusto la mano attraverso un orifizio stretto per prendere ciò che si trova all’interno. Sente che si tratta di una zolla di zucchero, ma quando la vuole tirar fuori, il suo pugno chiuso rimane bloccato nella noce di cocco. Il cacciatore di scimmie che aveva ideato la trappola, si avvicina con un passo tranquillo. La scimmia cerca di fuggire ma le sue zampe s’impigliano nella noce di cocco. Quando si sente aggrappato dalla pelle del collo, dice a sé stesso : ‘Ho perso la libertà però mi tengo la zolla di zucchero !’ In quel momento, il cacciatore gli dà un colpo sul gomito nel punto del nervo che fa male e la scimmia, per riflesso, lascia lo zucchero. Aveva perso e la libertà e lo zucchero. »

Depressioni e liberazioni

nel corso dell’evoluzione spirituale

            L’evoluzione spirituale conduce alla gioia interna ma non manca il rischio di reazioni depressive. Si ritrova questo rischio in psicoterapia dove alcuni pazienti vanno fino al suicidio perché non sopportano di vedere certe realtà in loro stessi e che ci sono lo stesso spinti da un terapeuta o analista troppo zelato o troppo rigido. Tuttavia se la pratica spirituale comporta dei rischi non devono essere sopravvalutati ; mi sembrano senz’altro meno gravi del fatto di mettersi al volante in stato d’ubriachezza una sera di festa…

            Nel cristianesimo si differenzia la depressione autentica (acedia) dalle fasi di secchezza, di aridità (ariditas) queste ultime sopraggiungendo durante un’evoluzione spirituale sana. L’acedia avviene sopratutto nei monaci o le monache di età matura. Si tratta di un disgusto di tutto quello che riguarda la via spirituale. Può darsi che sia legato ad un abbassamento della forza sessuale nei religiosi che seguono la via della devozione e della sublimazione delle emozioni verso il divino. Essendoci meno da sublimare ci sono dunque meno esperienze interiori. Al contrario, l’ariditas, la secchezza spirituale, corrisponde a ciò che San Giovanni della Croce chiamava ‘la notte dei sensi’. L’orante non è disgustato delle cose spirituali, al contrario, non aspira che a Dio, però non lo ‘vede’. E’ una sorta di desiderio amoroso insodisfatto, una rinuncia, un disinteresse per tutto ciò che non è Lui, senza riuscire per tanto a raggiungerlo. Per riprendere l’immagine di Santa Teresa di Avila, si può dire che il mentale, entrando nel suo bozzolo come un baco da seta, finisce per morirne e può finalmente rinascere come farfalla.

            Alla notte dei sensi fa seguito la notte dello spirito che può corrispondere ad una fase difficile : l’orante si accorge dell’irrealtà ultima della forma della divinità che ha adorato, dalla quale ha ricevuto visioni, messaggi e consolazioni. Tuttavia, dopo qualche tempo, dietro questa forma che si dissolve, appare un’energia nuova. Hadewich d’Anvers diceva, usando di paradossi : « Una conoscenza si rinnova senza moda nelle chiare tenebre della presenza d’assenza ». Per Ruysbroeck, la serenità appare a quelli che vanno al di là dell’essenza : « Si riposeranno con serenità nella loro sovressenza. »

            I cristiani insistono più degli indù sulle sofferenze dovute all’evoluzione mistica. La tela di fondo della mistica indù, che si tratti della via della devozione o della via della conoscenza, è la felicità (ânanda). Tuttavia la distruzione del mentale (manonâsha) non è trascurata giacché è indispensabile per l’instaurazione di una felicità stabile. Perché questa differenza ?  C’è già la fissazione dei cristiani sulla Passione di Cristo che in certi casi può confinare con ciò che in psicologia si chiamerebbe ‘traumatismo di nascità’. Però c’è, mi sembra, un altro fattore che può spiegare l’aridità spirituale nel mistico cristiano. E’ un fattore che gli autori ecclesiastici non osano abbordare di fronte ed è la rigidezza delle regole e delle istituzioni, cosa che impedisce al mistico di evolvere a ritmo suo e che intralcia una relazione di completa fiducia verso il maestro spirituale. Se un religioso non ha che dei superiori gerarchici e non ha un maestro spirituale sul quale poter fare un ‘transfert’ affettivo di fondo, non è sorprendente che provi delle secchezze spirituali frequenti e che soffra semplicemente di solitudine.

            Certi autori occidentali pensano che la rinuncia in India sia un equivalente della depressione. Certo può succedere che una persona abbia l’impulso di rinunciare in seguito ad un lutto, o una delusione, però questo genere di decisione non dura. La seconda parte del  nome dei ‘rinunzianti’ (sannyâs) in India è ânanda, la felicità, come in Vivekânanda, Shivânanda, ecc..., nei nomi stessi ‘rinuncia’ e ‘felicità’ sono strettamente associati. La rinuncia non nasce da una scelta forzata, ma da una comprensione giusta. Per l’indù non significa tanto dissoluzione quanto individuazione. La sua individualità diluita, finora, nella famiglia e nel clan (gotra) si afferma nella scelta della rinuncia. La pratica spirituale conduce a guarire la ‘posizione depressiva’. Si tratta di un aspetto frequente della psiche umana che risale al primo anno di vita, quando il bambino ha cominciato a vedere la madre allontanarsi appena appena, al che ha avuto una forte reazione. Si potrebbe esprimere questa cura spirituale, dicendo, in termini psicologici, che si deve ‘introiettare il buon oggetto’ che non è più la madre fisica ma, in India, il guru o la Madre Divina. Quando si diventa capace di ‘allucinare la Madre’ si ha in mano la migliore arma che ci sia per superare la posizione depressiva.

            Mâ Anandamayî faceva spesso la distinzione tra shûnya et mahâshûnya (il vuoto e il grande vuoto). Forse voleva evitare che si prendessero delle fasi di torpore nella sâdhana per la realizzazione dell’Assoluto. Questo tipo di distinzione torna in diverse vie spirituali con altre terminologie. Lo Shivaismo del Kashmir distingue dieci tipi di vacuità, il buddismo tibetano, diciotto. Questa insistenza sulla vacuità non è nichilismo. I buddisti credono nell’Assoluto, che chiamano a volte tathâgatagarbha, matrice (garbha) di Colui che è stato (gata) al di là (tathâ), cioè matrice del Budda. Quest’immagine della matrice conferma questo concetto della vacuità che abbiamo evocato prima : contenente di potenzialità. E’ una medicina per liberarsi della radice delle perturbazioni : per esempio, quello che sa meditare può annullare un’emozione parassita vedendola come vuota dall’inizio. Non è più intrappolato dai fenomeni ai quali accorda una realtà relativa ma non inerente. In questo segue la giusta via di mezzo (mâdhyamika). Nâgârjuna diceva : « La vacuità è stata insegnata come un rimedio per sbarazzarsi di tutti i punti di vista filosofici. Ma, in realtà, quelli che si aggrappano alla vacuità sono incurabili. » Non si tratta dunque di nihilismo. Si tratta d’indicare il fatto che l’Assoluto non può che essere evocato e non raggiunto dai discorsi della ragione. In questo, la scuola mâdhyamika di Nâgârjuna è sorella del Vedanta e madre dello Ch’an e dello Zen.

            Ai nostri giorni, questo dinamismo evolutivo del pensiero, favoreggiato dalla meditazione sulla vacuità, dovrebbe incoraggiare gli psicologi a rimettere in questione le teorie nelle quali si sono installati o addirittura rinchiusi. Forse non lo fanno per paura di cadere nell’apertura smisurata del nihilismo, ma dovrebbero sapere, intelletualmente almeno, che esiste la possibilità della ‘via del giusto mezzo’. Spero che queste diverse riflessioni aiuteranno a rischiarare similarità e differenze tra il vuoto esistenziale e la vacuità liberatrice. Spero sopratutto che rischiareranno la passerella stretta che conduce dal vuoto della depressione alla vacuità della mistica, questo ponte sospeso che dal niente porta verso il Niente.



[1] Lo è a tal punto che i terapeuti non se ne accorgono più ed è lì il problema.